Ritorno ad Amatrice, il mio paese non esiste più

 

di BENEDETTA PERILLI

 

AMATRICE (RIETI) - Torno ad Amatrice dopo un mese dall'ultima volta che l'ho vista. Qui sono nata, qui sono cresciuta, qui alle 3 e 36 del 24 agosto un terremoto ha ucciso oltre duecento persone, tra le quali anche le mie due zie e mia cugina.

Quello che è successo quella notte lo vedo nello sguardo terrorizzato di mio padre. Un sopravvissuto. Insieme al cane Ugo ha superato un armadio che gli cadeva addosso, sceso le scale tra calcinacci e quadri che volavano, preso la porta per scappare. La porta era bloccata, la casa si era spostata. Ha rotto la porta, è fuggito. Ha risalito la strada fino all'imbocco del paese. 

Il paese non c'era più. La casa dove le sorelle e la nipote dormivano disintegrata. E non c'era neanche stamattina quando sono arrivata. 

Torno ad Amatrice passando per una strada che non conoscevo, appena asfaltata e con un ponte che non avevo mai visto. Le altre vie di accesso sono chiuse. Da est, il paese sembra intatto ma appena superi l'ultimo blocco, quello al quale accedono solo i parenti delle vittime, si aprono violenti i vuoti sulle case e sui palazzi. 

La prima che incontro, in questa dolorosa camminata verso un passato che non c'è più, è proprio casa mia. La abbraccio, perché ha salvato mio padre, ma capisco solo in quel momento che non ci entrerò mai più. 

Continuo, manca l'orizzonte che conosco. Quei tetti che coprono le montagne, ora sono a terra, e tra una tenda che sventola - quella di casa di Marisa - e la testiera di un letto che si è trasformato in tomba, ora spuntano le cime verdi. Sarebbe quasi più bello il cielo di questa Amatrice nuova, dove sul corso svetta solo la torre - senza campana, caduta dopo l'ennesima scossa - senza case, senza vita. Sarebbe quasi perfetto se non fosse che sotto alle macerie sono sepolti ancora i corpi di tanti amatriciani. 

I sopravvissuti vagano con le lacrime agli occhi e i vestiti sporchi, chi con una busta di plastica, chi - i più fortunati - ancora con gli occhiali a specchio. Tra giornalisti, soccorritori e forze dell'ordine, quando incontro i miei compaesani lo sguardo si addolcisce, le braccia si tendono e anche l'uomo più burbero del paese finisce per stringerti, in lacrime per la perdita del figlio; l'altro, il compagno delle elementari diventato alto, ha perso madre, sorella e cugina. Tutti hanno perso qualcosa, tutti lo vogliono raccontare presto, con dettagli, senza indugiare sui sacchi neri che contengono i corpi, le lenzuola bianche che coprono la morte. 

Il vuoto sul bar di "Fofò" e sull'edicola, sull'unica boutique del paese, sul fotografo Caramella, quello con l'occhio storto. Manca la vetrinetta dove esponeva le foto del carnevale e io da bambina mi cercavo sperando di essere venuta bene. E manca il sonno, manca la dignità a Lisetta che tutta la vita ha indossato un abitino composto e ora si aggira in ciabatte con lo sguardo perso. Le case molti non le hanno più e ora dormono nella tendopoli al campo sportivo, le signore eleganti con le popolane. Tutti a mangiare una fetta di formaggio. 

Intanto si scava ancora nella zona rossa e al tramonto si vede alzarsi ancora qualche nuvola di calcinacci tra le scosse che non smettono di agitarsi sotto i piedi. Una supera il quarto grado, gli occhi di Alfredo si sgranano in mezzo alla strada che conduce alla piscina. Ora è diventata una sorta di bar all'aperto. 

Nessuno vuole fare la fine di Benito e Maria, li hanno appena estratti dalla piazza più nuova del paese. Sotto queste macerie gli amatriciani sono morti dopo una vita di lavoro. E che amara ironia quelle case ora polverizzate per le quali hanno faticato senza sosta. Sin da giovani, senza divertirsi troppo. Costruire, come la miglior educazione contadina insegna, per poi lasciarsi schiacciare dai sacrifici di una vita. La sera al massimo un bicchiere al bar dei Baccari, scomparso; una fidanzata da far passeggiare sul corso che non c'è più per poi affiggere le partecipazioni sotto le logge che abbellivano il comune, se guardavi bene c'era disegnato anche il volto di Mussolini. I più fortunati si sposavano a San Francesco, semidistrutta. Mamma e papà si sono sposati li. 

Dove abbiamo vissuto per dieci anni sono morte tre persone, madre, padre e figlia. Dove compravo il panino al prosciutto prima di andare a scuola a piedi ancora si scava e l'edicola, che si illuminava nei giorni di neve alta e mi faceva sognare il mondo, ora è spenta.

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