Carissimo Sindaco,
Tranquillo, non mi candido.
Un pò perchè non ne sono all'altezza,un
pò perchè nessuno me lo ha mai chiesto.
Forse troppo scomodo.
"La libertà del Popolo non è la mia
libertà" scriveva nel 1844 Max Stirner.
Per venti anni ho raccontato Leonessa e
forse, anzi sicuramente, la mia libertà non è piaciuta: qualcuno si sarà
lamentato e da lì qualche sonoro calcio nel sedere sinceramente
immeritato.
E i calci nel sedere degli Amici fanno
sicuramente più male dell'ignobile accusa di rubare i soldi dei
contribuenti.
Ergo, caro Sindaco, dopo vent'anni, mi
deve un favore.
Veramente il favore non lo deve a me: non
sono un Suo Elettore.
Se fossi un suo Elettore, sarei
preoccupato da questo silenzio.
Se fossi un suo Elettore, pretenderei
indietro, ancora una volta, trent'anni di consensi.
Al massimo tollererei una candidatura a
Vice Sindaco visto, che grazie ai soliti trent'anni di consensi, le
cronache lo raccontano spesso dalle parti di Piazza del Parlamento.
Se fossi un suo Elettore, pretenderei di
trovare nella scheda elettorale il simbolo della lista "Uniti per
Leonessa" e la possibilità di votare, ancora una volta,Paolo
Trancassini.
E, perchè no, anche la possibilità di non
votarlo.
Ma non sono un Suo Elettore.
E forse non lo sarò mai.
Ma vorrei ancora vivere ,
partecipare, raccontare Leonessa come negli ultimi 20 Anni.
La mia Leonessa.
La sua Leonessa.
La nostra Leonessa.
Le lascio un piccolo promemoria, un vero
e proprio programma di governo.
Scritto a latitudini lontanissime dalle
Sue: ma in fondo è stata la nostra profonda diversità ad unirci.
Un promemoria per i prossimi quattro
anni.
Felice Vita, Amico Mio.
G.B.
Rendiamo i Comuni centri di autogoverno
Lo Stato, organizzato secondo il federalismo dal basso e senza
l’ingombrante organismo delle Regioni, fungerebbe da interconnessione
tra le piccole unità decentrate che si autogovernano. Così si potrebbe
superare anche una visione individualistica dei diritti
di Alessandro Gaudio
Cosa
dovrebbe essere il Comune di un paese o di una città del Sud? Si tratta
di una domanda non di poco conto in una nazione che per decenni lo ha
sfruttato come se fosse una colonia, ridimensionandone progressivamente
le funzioni e le possibilità di intraprendere un percorso politico ed
amministrativo, vale a dire decisionale, diverso da quello imboccato dal
governo centrale. Ancora oggi, in un quadro reso ancor più drammatico, a
partire dal 2001, dalle conseguenze della legge N. 443, conosciuta anche
come Legge Obiettivo, e dagli effetti collaterali prodotti dalla riforma
del Titolo V della Costituzione, il municipio è considerato come mera
periferia la cui amministrazione, spesso in collusione con elite locali
clientelari, è regolata da decisioni prese altrove, grazie ad una
generale e supina accettazione di questo colonialismo culturale (che,
pertanto, è spesso assimilabile a una forma di autocolonialismo) e di
sfruttamento inappropriato delle risorse, dei territori, dei beni
pubblici e dei beni comuni.
E’ appena il caso di precisare che questi ultimi non rientrano nella
specie dei beni pubblici, poiché si tratta di beni a titolarità diffusa,
potendo appartenere non soltanto a persone pubbliche, ma anche a
privati. Essi esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti
fondamentali e al libero sviluppo della persona. Tali utilità, sancite
dalla Costituzione, dovrebbero essere salvaguardate e, invece, anche la
loro rilevanza si sta progressivamente estinguendo.
Eppure, se è una società etica quella che vogliamo, ovvero una società
basata su bisogni essenziali che si incontrano nella necessità di
risolvere i problemi di tutti i giorni; se vogliamo davvero una società
che riconosca finalmente i diritti inalienabili, che difenda i membri
più deboli, che estenda il diritto alla tutela della natura,
dell’ambiente e del paesaggio, inteso questo in un’accezione storica,
sociale, politica, prima ancora che filosofica ed estetica: se vogliamo
tutto ciò, allora deve cambiare radicalmente la forma della produzione,
della distribuzione della ricchezza e del consumo, partendo, è questa la
nostra proposta, da una trasformazione totale nella forma stessa del
comune, concepito, finalmente, come polo comunitario e centro politico
di autogoverno. Una vera e propria comunità politica, hanno auspicato
più volte giuristi insigni come Salvatore Settis
e Paolo Maddalena, che consenta il passaggio da quella visione
individualistica dei diritti, oggi diffusa ovunque ma sempre più
esasperata al Sud , a una prospettiva sociale collettivistica che generi
un rapporto proficuo tra popolo e territorio o, ma è la medesima cosa,
tra individui e proprietà collettiva. E quanto poi sia conflittuale e
distante oggi il rapporto tra lo Stato e le vere questioni territoriali
è sotto gli occhi di tutti.
E’ così difficile pensare ad un Comune che, da un lato, integri la
propria struttura decentrata in cooperazione con i consigli delle
strutture vicine e, dall’altro, che gestisca
le risorse
economiche disponibili (ma, ovviamente, anche quelle naturali e
culturali) attraverso, magari, la creazione di cooperative di produzione
consociate che deroghino alle regole di concorrenza vigenti sul mercato
? E’ davvero impensabile passare alla municipalizzazione
dei servizi luce e gas o allestire farmacie e cantine comunali ?
Fare in modo che il municipio ripristini e ridistribuisca le case
popolari, lotti contro l’analfabetismo, contrasti apertamente la
speculazione edilizia, la mafia e le clientele massoniche, curi la
refezione scolastica, proponga sgravi fiscali per i beni di prima
necessità, promuova lavori pubblici secondo un programma capillare che
regoli l’utilizzo e l’operatività delle aree e razionalizzi magari la
proprietà fondiaria è proprio inimmaginabile ? Lo Stato, come persona
giuridica e come popolo, dunque, come universalità concreta, ovvero come
comunità anch’esso, manterrebbe quella funzione di controllo (sulle
concessioni e sulle dismissioni, magari) alla quale mai avrebbe dovuto
rinunciare concedendo eccezioni
e deroghe, stimolando l’invasione e il depauperamento del
territorio. Dovrebbe invece misurare le cose, per esempio verificare che
le singole cooperative non diventino troppo grandi, che non si
comportino, cioè, come imprese private, cercandosi di espandersi l’una a
scapito dell’altra. Lo Stato, organizzato
in sintonia con
questa sorta di federalismo dal basso e senza l’ingombrante catafalco
delle Regioni, fungerebbe da interconnessione tra le piccole unità
decentrate che si autogovernano, non necessariamente seguendo linee di
sviluppo moderniste ( è sicuramente né globalizzate, né ottusamente
sovraniste). Potrebbe supportare l’autonomia del Comune nazionalizzando
fonti di energia e i servizi pubblici essenziali e provvedendo a un
sistema legislativo che ne faciliti l’esercizio e magari, come è stato
prospettato da più parti, fungere da prestatore a tasso d’interessi
zero; fornirebbe, cioè, credito gratuito permettendo così all’impresa
comunale cooperativa e autogestita di mantenere la titolarità del
surplus. E a che cosa potrebbe servire questo surplus o residuo ?
Potrebbe essere reinvestito nelle attività produttive coordinate; oppure
indirizzato al
miglioramento delle infrastrutture (anche delle tante stradine da
niente, diceva Pasolini, che costellano il meridione)
e dei servizi , al soddisfacimento dei bisogni collettivi, quindi
alla tutela del bene comune, uniformandosi a quel principio di
sussidiarietà sancito dall’articolo 118 della Costituzione
e sempre più estesamente disatteso. La nuova forma del Comune,
non più metastasi di uno Stato infermo, consentirebbe di legare
l’autogestione al federalismo statale in un tipo di anarchismo
comunitario, improntato in fondo su una rilettura critica e fattuale del
marxismo più ortodosso. Questo socialismo municipalista si richiama ad
una idea di Comune autonomo e libero, retto su di un continuo scambio
tra amministrazione e società; una municipalità che,essendo improntata
sulla necessità di risolvere alcuni problemi, sulla politica delle cose,
sulla ricerca della concretezza, sulla cooperazione, si pone come primo
baluardo entro il quale ammaestrarsi alla irrinunciabile lotta contro le
derive liberiste cui continua, invece, a soggiacere.
Prendere in considerazione questa strada è forse utopistico, ma
certamente non irrealizzabile. Tant’è che proprio in questi giorni il
Comitato popolare difesa beni comuni, sociali e sovrani sta patrocinando
una iniziativa che sembrerebbe non andare in una direzione diversa da
quella delineata.
Il 18 dicembre 2018 ha depositato presso la corte di Cassazione il testo
e la relazione di accompagnamento d una Legge delega, frutto del lavoro
della Commissione sui beni pubblici presieduta a suo tempo da Stefano
Rodotà. L’articolo ambisce a riorganizzare lo statuto dei beni comuni
attraverso la riformulazione dell’articolo 810 del Codice Civile al fine
di includervi anche i beni
immateriali, la distinzione dei beni in tre categorie (comuni, pubblici
e privati), la sostituzione del regime della demanialità e della
patrimonialità attraverso l’introduzione di una classificazione
dei beni pubblici appartenenti a persone pubbliche, la
definizione di parametri per la gestione e la valorizzazione di ogni
tipo di bene pubblico. Il disegno di legge, che pur essendo
perfettibile, se non altro chiede una discussione civile su principi
irrinunciabili, è stato redatto dieci anni fa,ma non è mai stato
discusso in Parlamento. L’iter di iniziativa popolare, sancito e
regolato dall’articolo 71 della Costituzione,prevede nelle prossime
settimane il lancio ufficiale della raccolta delle 50 mila firme
necessarie e il deposito di un milione di firme che i promotori
dell’iniziativa si sono prefissati come ambizioso obiettivo.
Obiettivo che sarebbe stato senz’altro raggiunto con maggiore facilità
qualora la proposta fosse stata predisposta, discussa ed approvata
all’interno di un’assemblea pubblica e non nelle segrete, che è
impossibile definire popolari , dell’Accademia dei Lincei.
In questo modo la legge di iniziativa popolare, innestata su un corpo
sociale tutt’altro che avvertito politicamente
e ancora una volta ben distante dallo Stato, si trasforma infine più che
in strumento, in dispositivo che sia,cioè, in grado di promuovere lo
sviluppo culturale, e si definisce ancora una volta come pratica
estranea e calata dall’alto. Perché le gerarchie di potere e la
conformazione del dominio non restino immutate, le forme partecipate che
ancora sono consentite dalla nostra debole democrazia devono essere
cercate e sfruttate senza timore, coinvolgendo direttamente gli spazi e
il significato di parole come Comune,comunità e bene comune le quali, se
ben allocate, possono accordare consistenza a ciò che può sembrare
utopia.
(Left – 11 Gennaio 2019)
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